“SEGNI D’ARIA E D’ACQUA A ROMA” di Luigi Toiati

La Madonna di Via Margutta

Mi chiamo Luigi Toiati, e sono romano da otto generazioni. Nella vita faccio il sociologo, occupandomi di ricerche di mercato. Non studio come dare fregature al prossimo, ma come piuttosto il prossimo sia o meno già predisposto a ricevere quei consumi che gli vengono proposti. Ho un mio Istituto, la Focus: la mia “specializzazione” è nella disciplina che osserva i “segni” e la loro relazione con il linguaggio, la Semiotica. In proposito, ho scribacchiato qua e là vinto qualche premio, e tenuto numerose conferenze. Attualmente, studio e applico le meraviglie del pensionamento, grazie al quale ho potuto finalmente pubblicare un libro in Inglese sui soldatini, The History of the Toy Soldier, appunto. Devo dire che il mio amore è egualmente spartito tra Roma, i soldatini che dipingo e colleziono, e mia moglie, anche se non necessariamente in quest’ordine.

Tempo fa, avevo intrapreso la stesura di un libro su Roma, o meglio, sui suoi “segni” di aria – i tabernacoli – e di acqua – le fontane. Quello che segue è un piccolo assaggio.

 Un modesto tabernacolino “voto suscepto”, eretto da un altrettanto modesto privato ad una Madonna “ariae respicienti” che, appunto, con aria sofferta e trasognata guarda il cielo, probabilmente intercedendo per i casi a noi affatto sconosciuti del suo protetto. Siamo nel 1858, ai primi di Settembre, come ci ricorda la piccola lapide in latino, sotto la quale qualcuno più familiarmente, forse l’edificante stesso, ha aggiunto in un altrettanto piccolo quanto ingenuo cartiglio marmoreo “Grazie Madonnina”. Il tutto è sormontato da un modestissimo baldacchino ondulato smaltato di verde, ingentilito da fiori sempre freschi.

Via Margutta non era niente più che una stradicciuola di campagna, ai piedi di quel Pincio dove in tempi antichi si snodava, non si sa ancora se solo sulla carta o fisicamente, il portico di Gordiano III, “di mille piedi (350 metri circa)… con, dall’una parte e dall’altra, verzieri tutti erborati di mirti, allori e bossi” (Jul. Capit.XXXIII), così nella traduzione di Giuseppe Baracconi. Ed è sempre Baracconi che ci tratteggia una Roma che – almeno in parte ancora all’epoca sua – in quella stessa zona era in “uno stato campestre”, e dove “qualche chiesa, qualche chiostro e vasti orti educati fra le sparse rovine di Roma antica rompevano il deserto dell’ampia regione interposta tra l’arco (di Marc’Aurelio, allo sbocco di Via della Vite) e porta del Popolo, tra il Corso e le piazze di Spagna e Barberini.”

Via Margutta, ancora fino a pochi anni fa ricovero di artisti “veri”, oggi fa un po’ il verso a se stessa, ospitando gallerie e mostre all’aperto o no per vari gusti. Ha mantenuto quel carattere “scapigliato” che dà come una velatura di pennello all’intera zona. Trilussa nacque all’imbocco di Via del Babuino, Pascarella a grandi falcate cominciava le sue passeggiate collettive o solitarie dal Caffè Greco, o da quello “Degli Inglesi” su piazza di Spagna – entrambi noti ricettacoli di generazioni di artisti. Il verde lo trovava subito, appena fuori di Porta del Popolo; poco distante, al Muro Torto, a tutto il settecento, ancora avreste trovato invece il Cimitero “delle meretrici e dei malfattori”. Nel vecchio dialetto romano, “andare al Muro Torto” significava essere sepolti in malo modo, distinto dall’”andare agli alberi pizzuti”, che per metonimia avrebbe invece distinto una sepoltura più decente sotto i cipressi appuntiti (pizzuti) del Campo Verano. Scapigliatura artistica che oltre che nei caffè citati si sarebbe per secoli trovata sui declivii del colle degli ortuli, in una via Sistina dove abitarono i Danesi a palazzo Zuccari, Salvator Rosa, Poussin, i Caracci, Andersen. Remota periferia – cosa per noi difficilmente immaginabile oggi, frastornati dal traffico di Piazza Barberini -, dove pascolavano le capre raffigurate da Ettore Roesler Franz, che si arrampicavano sui declivii fronzuti della salita di S. Nicolò da Tolentino, o scendevano giù verso le “fratte”dalle quali prende il nome la chiesa borrominiana di S. Andrea con il suo rustico mattone a vista. Fratte ancora, appena sulla Via Flaminia, con l’intervallo della Villa, o meglio della “Vigna”, di Papa Giulio, toponimo per i romani di verdure e frutta gratis, perché liberamente elargite a chi ne richiedesse: consanguineo lessicale dell’aver qualcosa “a ufo”, cioè a sbafo, derivato dalla scritta “Ad Usum Fabricae Operum” che sulla porta dell’antica Fabbrica di S. Pietro esentava dal dazio i materiali ivi immessi. Ancora oggi Via Margutta ha l’aspetto sonnacchioso della campagna: l’antico nome di Via del Babuino, ossia Orti di Napoli, ancora appartiene ad un suo vicoletto. Se entrate a visitare la Casa d’Aste Finarte troverete sulla destra un vicolino pavimentato di sampietrini che muore in un elegante condominio, ma che in origine doveva essere uno dei tanti sentieri che portavano agli orti.