Intervento del Presidente Giuseppe Conte al Rome MED 2019

7 Dicembre 2019 – Il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, è intervenuto alla sessione conclusiva della conferenza Rome MED– Mediterranean Dialogues.

Dopo il saluto ai Ministri e alle Autorità presenti, al neo Commissario Paolo Gentiloni, al Vice Presidente del Parlamento europeo Castaldo, agli onorevoli Deputati e Senatori, all’ISPI, e a tutti i partecipanti, , così ha iniziato il suo discorso:

“Vorrei poi unirmi anche al Ministro Di Maio nell’esprimere il vivo ringraziamento a tutti i protagonisti di questa conferenza e saluto, in particolare, il Presidente della Repubblica del Ciad, che ieri ho ricevuto anche in visita a Palazzo Chigi. E, se mi permettete, la sua presenza anche qui in questa quinta edizione testimonia non solo l’intensa e proficua collaborazione tra i nostri due Paesi, ma anche, e soprattutto, la sostenuta azione del mio Governo verso un continente in continua espansione, la cui stabilità e prosperità sono strettamente connesse a quelle del “Mediterraneo allargato”.

Un ringraziamento particolare vorrei rivolgere alla Farnesina e al Capo della Diplomazia italiana per la realizzazione insieme all’ISPI di questo prestigioso evento, che si afferma ormai come uno degli appuntamenti di punta del dibattito internazionale sui temi di politica estera, e più in generale per la costante ed efficace attività di promozione dei valori e degli interessi nazionali nel mondo.

Il Ministro Di Maio ha già tracciato un bilancio di queste due intense e proficue giornate di lavoro. Si tratta di risultati importanti raggiunti da una iniziativa che, ancora una volta, pone Roma al centro della riflessione internazionale su un’area strategica per il nostro futuro, un futuro – questo il nostro obiettivo – di pace e benessere condivisi.

Il Mediterraneo è il “Grande Mare”, tra gli altri ce lo ricorda lo storico David Abulafia, e le varie civiltà che si sono susseguite affacciandosi sul Mediterraneo l’hanno chiamato diversamente: i Romani lo chiamavamo Mare nostrum, Mare bianco i Turchi, Mare di mezzo i Tedeschi, Grande verde gli Egizi. Ecco, per gli scrittori moderni è diventato il “Mare amico”, il “Mare della fede” di varie religioni, il “Mare amaro”, il “continente liquido”. È un patrimonio questo di espressioni che, nel cercare di mettere a fuoco la soggettività storica di questo spazio, mostra la complessità di questo mondo a noi comune. Si tratta, al tempo stesso, di un perimetro strategico che si è progressivamente ampliato perché accresciute sono le sue sfide.

Il Mediterraneo allargato oggi più che mai è un “paradosso geo-politico”, come già osservato in questa sede e nei numerosi studi dedicati a quest’area geografica. È una regione in continua tensione tra evoluzioni e involuzioni, frammentazioni e interconnessioni, solide lezioni del passato ma anche incerte prospettive per il futuro. Mentre si allarga lo “spazio mediterraneo allargato”, esso subisce le spinte interne ed esterne alla disgregazione, in cui i Governi locali si confrontano con attori non statali, tendenze egemoniche internazionali, crisi generazionali nonché urgenze economiche.

I centri di potere si sono moltiplicati nel corso del tempo, così come i teatri di conflitto potenziali o effettivi, a immagine di una realtà geopolitica multipolare che ha certamente accresciuto la portata strategica di quest’area e non sempre in senso positivo. Sono certo che questi due giorni di incontri hanno permesso di approfondire tali contraddizioni e nel contempo anche le priorità strategiche per chi ha la responsabilità di governare le sfide, per quanto complesse esse siano, nella consapevolezza che il Mediterraneo allargato deve tornare ad essere un polo di attrazione, stabilità, sviluppo, circolazione di idee, incrocio di culture.

Permettetemi dunque alcune considerazioni generali – approfitterà della vostra pazienza – a conclusione di questa importante iniziativa, soffermandomi sulle principali dinamiche geo-politiche e socio-economiche dell’area.

Osserviamo innanzitutto nella regione una domanda crescente di processi di transizione politica. Processi che richiedono tempo e il coinvolgimento di tutti i settori della società: non si tratta – vedete – di svolgere libere elezioni, ma anche di creare istituzioni solide, che possano rispondere alle esigenze di tutti i cittadini, comprese anche le minoranze. Questi processi virtuosi devono essere sostenuti e incoraggiati a livello internazionale, a tutti i livelli, anche a livello di Unione europea.

Non dobbiamo più farci sorprendere, come è accaduto nel 2011 con le Primavere Arabe. Ora sappiamo che furono manifestazioni di tensioni latenti e non sopite, allora emerse in maniera tanto dirompente da travolgere gli stessi portatori di quelle istanze di cambiamento. Oggi ri-assistiamo al riemergere di proteste popolari, anche espressione di forte frustrazione, soprattutto dei giovani, verso la depressione economica, la corruzione, la mancanza di prospettive certe, una insoddisfazione diffusa che le reti sociali sono in grado di amplificare mobilizzando le masse. C’è indubbiamente anche un bisogno di partecipazione, di riappropriazione dello spazio pubblico e quindi delle istituzioni e della vita politica da parte delle nuove generazioni.

Pur in presenza di forti specificità nazionali, vi è un tratto comune nei numerosi moti di piazza di alcune capitali mediterranee. Si chiede ai Governi e agli apparati di rispondere del loro operato (il concetto di accountability). Si sollecitano riforme, servizi funzionanti, uno sviluppo inclusivo e lavoro per i giovani.

Non vi sono in questi movimenti forti ed univoche connotazioni ideologiche e confessionali, che le manifestazioni stesse sembrano anzi mettere in discussione. E mentre otto anni fa le rivendicazioni socio-economiche si saldavano solo parzialmente alla critica radicale del sistema politico, oggi – possiamo convenire – i due aspetti si fondono, e alla narrazione sulla sicurezza interna si sovrappone e si rafforza quella sulla sicurezza sociale.

C’è però un altro dato che merita di essere evidenziato: anche l’Europa è segnata da tensioni sociali che hanno radici parzialmente – e sottolineo parzialmente – simili a quelle della sponda meridionale del Mediterraneo. Sono la conseguenza della difficoltà dei Governi di dare risposte convincenti alle sfide della globalizzazione, delle nuove tecnologie, della crisi finanziaria. E le parole d’ordine, amplificate a livello globale dai mezzi di comunicazione di massa, sono affini se consideriamo bene: lavoro, equità, giustizia, benessere. Le istituzioni e le classi dirigenti vengono messe in discussione per la loro difficoltà nel venire incontro alle attese dei cittadini. Ci troviamo di fronte ad una piazza che travalica i confini della regione, le cui sfide oggi sono, più di ieri, interconnesse.

Una delle particolarità del quadrante mediterraneo risiede nella sua capacità di innescare dinamiche in grado di coinvolgere direttamente non solo le aree geopolitiche contigue, ma l’intero scacchiere internazionale. Essa trova un’amara conferma- se considerate bene – anche nell’attuale proliferare dei teatri di crisi.

La regione continua ad essere attraversata da eventi destabilizzanti dove interessi locali, regionali e internazionali si intrecciano e si condizionano reciprocamente. È il caso ad esempio della Libia, della Siria e dello Yemen che, seppur con modalità e livelli diversi, versano oggi in una condizione di profondo scontro civile, reso amaramente più complesso dalla presenza di più di un “conflitto per procura” (la famosa proxy war).
In Libia la situazione di conflittualità ha già ripercussioni che travalicano i confini del Paese, sia in termini di crisi umanitaria, aumento della minaccia terroristica e dei flussi migratori, sia per quel che riguarda la proliferazione dei traffici illeciti e l’instabilità della produzione energetica.

La crisi siriana è ancora lontana da una sua ricomposizione, benché l’avvio dei lavori del Comitato Costituzionale rappresenti un primo passo importante nell’ambito di un difficile processo politico. Tale considerazione non deve distrarci da quanto sta accadendo nella regione di Idlib, dove proseguono in modo inaccettabile attacchi indiscriminati sulla popolazione civile, e nel quadrante nord-orientale, dove i propositi legittimi di sicurezza possono trasformarsi in ulteriori fattori di instabilità.

Crisi umanitaria senza precedenti è anche quella provocata dal conflitto in Yemen, dove emergono primi segnali timidi per una soluzione diplomatica. Guardando alle cerniere critiche della regione, un compromesso politico per il Paese aiuterebbe altresì a ridurre le tensioni che si sono accumulate in tutta l’area del Golfo Persico e che si sono – come sappiamo – manifestate anche in azioni di sabotaggio nello stretto di Hormuz e in attacchi contro infrastrutture petrolifere. Eventi che hanno portato all’attenzione del mondo la fragilità degli approvvigionamenti energetici su scala globale e della sicurezza della navigazione.

Allo stesso tempo, manteniamo alta l’attenzione sull’Iran, di cui osserviamo con preoccupazione il progressivo disimpegno rispetto agli obblighi dell’accordo nucleare. Il Joint Comprehensive Plan of Action rimane un pilastro essenziale dell’architettura di sicurezza di quella regione. È dunque doveroso mantenere aperti tutti i canali di dialogo per contrastare ulteriori pericolose escalation e favorire una responsabilità cooperativa, anziché competitiva o conflittuale.

Sul conflitto israelo-palestinese, dobbiamo purtroppo riconoscere che la situazione appare in continuo deterioramento, con un livello di fiducia tra le parti al minimo storico per quanto ricordi: insediamenti e demolizioni da un lato, incitamento alla violenza e lancio di razzi dall’altro. Un conflitto irrisolto che vede anche un rassegnato e preoccupante – diciamocelo – calo di attenzione da parte della comunità internazionale, oggi più proiettata su altri teatri di crisi.

La strategia italiana nel mediterraneo. Gestire efficacemente e prevenire le crisi è dunque indispensabile. Il primo passo deve essere quello di accompagnare le transizioni istituzionali, attraverso un processo e un approccio integrato ed inclusivo che rispetti le prerogative nazionali.
Dobbiamo farlo nella consapevolezza che siamo confrontati con un unico teatro strategico, caratterizzato da una interdipendenza sul piano della sicurezza e della stabilità, ma anche dello sviluppo umano, sociale, come osservava già sei secoli fa lo storico e sociologo ante litteram Ibn Khaldoun nelle sue analisi sulle civiltà mediterranee.

È del tutto evidente che le dinamiche politiche della regione hanno un impatto diretto sulla sicurezza dell’Italia e dell’Europa. Quello di cui dobbiamo però essere responsabilmente consapevoli è che la fine di uno scontro armato non significa mai la fine di un conflitto. Per questo continuiamo a investire senza risparmiarci sull’inclusività dei processi di pace, sulla ricostruzione post-bellica e sul peacebuilding, elementi fondamentali questi per rimuovere le radici profonde delle ostilità e assicurare una pace sostenibile.

Tra i contributi italiani più significativi, ricordo anche la nostra partecipazione alle missioni, in particolare all’UNIFIL in Libano e l’addestramento delle Forze armate libanesi; la nostra presenza in Iraq, dove siamo tra i principali contributori di truppe della Coalizione anti Daesh e addestriamo le forze di sicurezza e di polizia locali; il cruciale scenario libico che ci vede in prima linea nel sostegno all’ONU e agli sforzi del Rappresentante Speciale Salamé, anche nell’organizzazione della prossima Conferenza di Berlino, al fine di facilitare il raggiungimento di una effettiva cessazione delle ostilità.

Vorrei ribadire che non esiste un’opzione, quindi, militare risolutiva, in particolare con riguardo alla crisi libica, ma solo un processo politico inclusivo potrà condurre ad una stabilizzazione piena e duratura del Paese. Al di là delle dichiarazioni di intenti, è necessario colmare l’ampio divario che separa la retorica pubblica e i comportamenti concludenti di tutti gli stakeholder locali ma anche internazionali. Obiettivo che l’Italia ha ribadito durante la riunione con i Paesi vicini della Libia svoltasi ieri sera, a margine di questa conferenza.

Mi corre l’obbligo di segnalare che apparteniamo alla ristretta cerchia di quegli stakeholder il cui comportamento è completamente – e sottolineo completamente – allineato alle nostre dichiarazioni. Non ne faccio una questione di polemica, quanto piuttosto un fattore di credibilità per il nostro Paese, per la nostra azione, e ricordo che noi abbiamo un bagaglio di conoscenze storiche non comuni rispetto a quel Paese praticamente. È un dossier su cui non è possibile improvvisare e su cui non è possibile fare i “primi della classe”.

Partenariati bilaterali con la sponda sud. Ecco, vorrei ribadire con convinzione che sarebbe un grave errore di prospettiva guardare al Mediterraneo allargato solo come a una serie di teatri di crisi. Esso costituisce anche uno spazio comune dalle grandi opportunità. Il dialogo con la sponda sud è quindi fondamentale e, per essere efficace, deve proporsi come autentico partenariato.

La nostra collocazione geografica e la nostra storia ci hanno naturalmente portato a sviluppare scambi e cooperazione a tutti i livelli e in tutti i settori. Il 2019 ci ha visti protagonisti, in continuità con gli anni precedenti, nel rafforzamento delle nostre relazioni bilaterali con i Paesi della sponda sud.

Quanto alla dimensione sovranazionale della nostra azione, ricordo che l’Italia promuove nella regione degli ottimi rapporti bilaterali e pone al centro della sua strategia un approccio integrato, in cui ci proponiamo di essere volano per un ruolo più profilato della Comunità internazionale e delle principali Organizzazioni sovranazionali.

Riteniamo tale impegno fondamentale, affinché il concetto di ownership non si traduca in disimpegno e le agende nazionali non collidano con la responsabilità condivisa e con l’inclusività. Ho già menzionato il contributo italiano in tema di contrasto al terrorismo nel quadro della Coalizione ma anche di diverse organizzazioni internazionali.

L’Italia è poi tradizionalmente tra i più attivi sostenitori di un chiaro e percepibile rafforzamento della politica di vicinato meridionale dell’Unione europea, così come del suo crescente coinvolgimento e, vedete, non solo sul piano finanziario. Come osservavo nel mio intervento, anche in questa sede, in occasione della scorsa edizione, l’Europa ha una particolare responsabilità, perché ad essere in gioco non è solo il futuro della regione ma anche l’avvenire, la stabilità e la sicurezza del Vecchio Continente.

Vorrei infine rivendicare che se oggi anche la NATO guarda con sempre maggiore attenzione alle sfide provenienti dal Sud, come confermato dal recentissimo Vertice di Londra, certamente molto lo si deve anche alla determinazione del nostro Paese.

E visto che parliamo di NATO, se permettete, dalla NATO ci viene anche un’altra indicazione. All’ultimo Summit intorno al tavolo sedevano anche i rappresentanti dell’Albania e del Nord Macedonia. Nord Macedonia, abbiamo festeggiato questo nuovo ingresso; si sta perfezionando questa nuova inclusione. Vedete, io spero che anche l’Unione europea possa rendersi conto dello strategico coinvolgimento di questi Paesi, del ruolo strategico che hanno i Balcani occidentali che, peraltro, si affacciano sul Mediterraneo, quindi rientrano nella nostra prospettiva, nel nostro ragionamento. Si tratta di un’area strategica ed è impensabile che a due Paesi come l’Albania e il Nord Macedonia non si è offerta la possibilità di avviare un percorso di dialogo per essere, in prospettiva, inclusi il progetto europeo.

Nella percezione collettiva, il Mediterraneo è oggi il luogo dove convergono le rotte migratorie che dall’Africa e dall’Asia affluiscono verso l’Europa. Il Ministro Di Maio ne ha parlato a lungo.

L’Italia è la porta meridionale dell’Europa. Dobbiamo quindi mettere al centro della nostra azione la sfida posta da questo fenomeno epocale, da una parte rivendicando maggiore solidarietà e responsabilità da parte dei Paesi membri della Unione europea, dall’altra adottando una coerente politica multi-livello che miri alla rimozione delle cause profonde dei flussi migratori, allo sviluppo di attività di capacity-building nei Paesi africani, all’attuazione di politiche di rimpatri volontari assistiti. È quello che un po’ abbiamo fatto, qualche giorno fa, con Eni, laddove siamo stati in Ghana per inaugurare un nuovo centro di formazione per l’intera filiera agro-industriale di ben 800 giovani ghanesi per renderli autonomi, imprenditori di sé stessi.

I numeri, vedete, ci danno ragione in termine di riduzione degli arrivi irregolari, ma la politica migratoria non può certamente limitarsi – nonostante un vivace dibattito pubblico – a queste mere statistiche, quanto piuttosto svilupparsi quale disegno complessivo di rapporti ordinati, coerenti e virtuosi tra le due sponde.

Dobbiamo quindi impegnarci per un salto di qualità sul piano europeo, che perseguiamo con determinazione. Il Mare Nostrum non può essere un Mare Nullius. L’Europa non può perdere l’opportunità offerta da questo nostro nuovo ciclo istituzionale per imporre un’evoluzione del nostro approccio da una logica emergenziale ad una strutturale. In questo spirito ho recentemente inviato ai Presidenti delle Istituzioni Europee un primo contributo per un impegno congiunto dell’intera Unione, pena la tragica incompiutezza dell’Europa e l’inevitabile destabilizzazione del Mediterraneo.

Per assicurare pace, sicurezza e prosperità ad un’area così complessa, occorre anche promuoverne le notevoli potenzialità di hub economico globale e lo sviluppo della sponda sud risponde certamente ad una nostra esigenza di sicurezza, ma può avere importanti ricadute anche sulla crescita economica “condivisa”.

Insisto sul concetto di crescita “condivisa”, perché se è vero che dobbiamo impegnarci per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni mediterranee, è altrettanto vero che ciò deve avvenire in una logica di co-sviluppo.

La regione offre importanti opportunità anche per l’Italia. I numeri sono eloquenti e li ha già rappresentati il Ministro Di Maio. Per cogliere queste opportunità sono necessari investimenti di lungo periodo, una cooperazione strutturata in settori strategici, anche intersecando gli ambiziosi programmi di diversificazione economica lanciati ad esempio dai Paesi del Golfo.

Pensiamo anche alle straordinarie potenzialità della Blue e della Green Economy, che costituiscono una nuova visione del fare impresa anche all’interno dei processi di internazionalizzazione e al tempo stesso promuovono la collaborazione tra ricerca, industria e politiche del settore. Il cambiamento climatico va affrontato in modo strategico, in modo coerente e coordinato e l’Italia anche per questo ha avviato un partenariato con il Regno Unito in vista della COP26 di Glasgow. In tale quadro ospiteremo – è stato anche questo ricordato –  la pre-COP ma anche una “Cop dei giovani”, con l’obiettivo di dare visibilità e forma alle esigenze sempre più vive dei giovani. Ci sarà anche la possibilità di approfondire con i partner africani le evidenti, forti implicazioni del cambiamento climatico sul loro Continente in apposito evento a loro dedicato.

Occorre dunque capitalizzare il nostro dialogo sull’efficienza energetica per farne un fattore di crescita, di stabilizzazione regionale, utilizzando strumenti come il Foro del gas del Mediterraneo orientale, cui l’Italia partecipa come membro fondatore. La promozione di fonti rinnovabili costituisce un corollario importante di tale impegno, in grado di generare effetti positivi sull’occupazione e valore aggiunto per l’economia.

Peraltro il prossimo anno si svolgerà anche la prima Esposizione Universale con sede in una Paese arabo: l’Expo 2020 Dubai. La partecipazione dell’Italia dedicata al tema “La bellezza unisce le persone” rappresenterà un’occasione formidabile di promozione del Sistema Paese, ma faremo – vi assicuro – della nostra presenza anche una leva di diplomazia culturale e scientifica verso l’intera area regione.

Quanto alla cultura, e mi avvio a conclusione, essa rappresenta da sempre un canale fondamentale di dialogo, un veicolo di idee nel quadrante mediterraneo. Non ci lega, infatti, solo la geografia, ma anche una condivisione di patrimoni culturali che nel corso dei secoli hanno dato vita a questa singolare miscela, questo pluralismo identitario, che rende questa parte del mondo unica, anche fragile allo stesso tempo. Investire nel capitale umano implica anche l’avanzamento di un dialogo costruttivo in tema di diritti umani, di rispetto delle libertà fondamentali, passaggio ineludibile per una vera stabilizzazione della regione.

Ecco, questa straordinaria eredità comune si traduce, solo per citare alcuni numeri significativi, in ben 400 siti patrimonio dell’UNESCO e in un terzo del turismo mondiale. Il contributo italiano alla tutela del patrimonio culturale della regione è riconosciuto a livello internazionale e costituisce un fattore cruciale per favorire la convivenza civile e ridurre le spinte alla radicalizzazione. Si tratta di soft power, che funge da moltiplicatore di esperienze e su cui vogliamo investire con accresciuta intensità.
Sviluppare un’agenda positiva per la regione significa soprattutto guardare ai giovani e investire sulla loro crescita culturale, puntando in particolare ad un salto qualitativo della nostra cooperazione in termini di istruzione e ricerca, attraverso programmi congiunti per la formazione superiore.

E significa anche, permettetemi di ricordalo, rilanciare con vigore il ruolo delle donne, energia vitale delle nostre società, attrici fondamentali nella prevenzione e anche nella soluzione dei conflitti. È un punto d’onore che proprio nel quadro dei MED Dialogues si sia svolto il Women’s Forum, dedicato quest’anno al ruolo delle donne nei processi di pace e nello sviluppo economico.

E concludo. L’acqua separa, ma al tempo stesso unisce. È vero che il Mediterraneo vive un momento di forte instabilità. Ma i Paesi della regione hanno un’antica consuetudine di interazioni che rifugge con forza una visione ristretta, puramente securitaria, la visione cioè di una regione da gestire esclusivamente in chiave di contrasto al terrorismo e di governo dei flussi migratori.

Il Mediterraneo allargato è molto di più. E’ una piattaforma unica, che va però affrontata con strumenti interpretativi e operativi aggiornati per promuovere una dinamica costruttiva, traendo insegnamento da quello che negli anni abbiamo realizzato con successo ma ancor di più da quello che non siamo riusciti a fare. Se l’era della “pazienza strategica” sembra a tratti esaurita, la fluidità degli scenari ci impone di essere ancora più ambiziosi e ancora più lungimiranti, guardando oltre il “giardino di casa” per ricomporre un rinnovato spazio mediterraneo, un nuovo patto euro-mediterraneo per la democrazia e lo sviluppo condiviso.

Sulla riuscita di tale patto verremo giudicati dalle generazioni future! “