Intervento del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte in un incontro con i giovani al Tempio Maggiore di Roma

Il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte ha incontrato un gruppo di giovani di religione ebraica della Comunità degli Stati Indipendenti (provenienti da Federazione Russa, Azerbaijan, Bielorussia, Kazakhstan e Uzbekistan) presso il Tempio Maggiore di Roma. 

Di seguito il discorso:

08 Maggio 2019 “ Ci tenevo davvero a incontrarvi, quando ho saputo che eravate qui di passaggio a Roma, il Signor Rabbino Capo di Russia lo sa, ho subito confermato il desiderio di incontrarvi e di parlarvi. Benvenuti davvero nella nostra città, nella nostra terra. Io peraltro torno nel Tempio maggiore di Roma dopo pochi mesi. Ed è ancora per me molto viva l’emozione della visita del gennaio scorso. Sono impressi nella mia memoria l’accoglienza ricevuta, il clima di umana e profonda consonanza che subito si è creato, nel contesto della commossa rievocazione dell’immane tragedia dell’Olocausto. Come affermai allora, il male che quella generazione ha vissuto nelle sue forme più acute si è fatto ormai memoria, interrogando le coscienze di quanti sono vissuti dopo.

Anche oggi, nel celebrare i cento anni dalla nascita del grande scrittore italiano Primo Levi, riaffiora l’orrore dei campi di sterminio, le sofferenze subite dai milioni di deportati in tutta Europa, la grave e incomprensibile e intollerabile violazione dei diritti della persona, fino alla compressione integrale di beni primari: la libertà, l’integrità fisica, la dignità, la vita.

La testimonianza straordinaria che Primo Levi ha trasferito in opere che ormai fanno parte del patrimonio della letteratura universale, dimostra, nella misura più intensa, quanto l’arte, in tutte le sue espressioni, sappia dar voce ai sentimenti e alle emozioni dei popoli. L’arte riesce a “fare memoria” nel senso più alto del termine; capace di esprimere l’indicibile, permettendoci di vedere l’“essenziale”. Primo Levi ha saputo raccontare, forse come pochi altri, la condizione umana nei campi di sterminio, utilizzando una scrittura essenziale e ma allo stesso tempo evocativa, con uno stile che ancora oggi emoziona nella naturalezza: descrizioni asciutte, nelle quali però ogni parola riflette il peso di un dramma personalmente vissuto e che – e come tanti altri sopravvissuti – si ha difficoltà a rievocare, non solo per il dolore che la memoria dell’orrore provoca in chi lo ha attraversato, ma anche per il timore, che lui avvertiva vivo, di non essere creduto o di non essere all’altezza di raccontare l’indicibile.

Scrive Levi nel primo capitolo del suo capolavoro: “Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. Nulla più è nostro: ci hanno tolto gli abiti, le scarpe, anche i capelli; se parleremo, non ci ascolteranno, e se ci ascoltassero, non ci capirebbero. Ci toglieranno anche il nome: e se vorremo conservarlo, dovremo trovare in noi la forza di farlo, di fare sì che dietro al nome, qualcosa ancora di noi, di noi quali eravamo, rimanga”.

Vedete, la presenza, in questo Tempio, di studenti universitari e di giovani professionisti di religione ebraica, provenienti dalla Federazione Russa, dall’Azerbaijan, dalla Bielorussia, dal Kazakhstan, dall’Uzbekistan, accompagnati dal rabbino Capo di Russia Berel Lazar, per ricordare Primo Levi, conferma quanto questo scrittore italiano sia riconosciuto – in tutto il mondo – per la sua grandezza, per la versatilità letteraria con la quale ha saputo parlare al mondo, quanto sia amato ancora oggi, dopo molti anni dalla sua morte.

In un altro suo libro, La tregua, Levi, nel descrivere la liberazione, ricorda i momenti nei quali proprio i soldati russi entrarono nel campo di Auschwitz. L’arrivo dei primi soldati dell’Armata rossa, il 27 gennaio del 1945, è raccontato da lui con nuda drammaticità: “Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche squassate, e su noi pochi vivi.”

L’opera di Primo Levi, come quella di altri scrittori di origine ebraica, è stata un elemento che ha vivificato l’identità europea, apportando un contributo preziosissimo alla cultura nella quale siamo immersi, offrendo all’umanesimo europeo il dono di sempre nuove, originali fioriture. Come anche ho ricordato nella mia visita precedente visita, a gennaio, l’uomo europeo non sarebbe quello che è senza l’ebraismo e senza tutto quello che questa straordinaria religione ha prodotto.

Credo che la memoria della guerra vissuta in Europa, nella grande notte dell’umanità, abbia radicato nella cultura europea, nel sottosuolo della nostra coscienza collettiva del nostro Continente, un senso di comune appartenenza che nessuna divisione ha potuto integralmente cancellare.

Certamente, il sentimento nazionale è stato sempre molto forte e radicato, abbiamo vissuto, in alcune aree d’Europa, questo sentimento in particolare negli anni ’90 dello scorso secolo, l’esperienza di guerre mosse anche da fattori razziali e religiosi. Tuttavia, sul terreno della cultura, gli europei si sono potuti riconoscere in alcuni valori preminenti di civiltà.

La vostra presenza qui oggi mi offre l’occasione per riflettere proprio sul ruolo della cultura come veicolo di trasmissione di valori universali, come strumento capace di ampliare l’orizzonte delle nostre esistenze, di attraversare i confini, di unire.

Mi piacerebbe che di questa visita a Roma restasse in voi non solo il ricordo – spero – di un viaggio straordinario, che fonde cultura e memoria, nel ricordo di Primo Levi, ma anche il sentimento di appartenenza a un’umanità che nel segno della cultura si senta avvinta a un comune destino. La letteratura, l’arte, la musica, anche il cinema (penso, tra i tanti, allo straordinario capolavoro di Roman Polański Il pianista) ci mostrano veramente quanto, al di là delle provenienze geografiche, delle diverse appartenenze linguistiche, religiose, nazionali, sia possibile rinvenire le tracce di una comune radice di umanità, di civiltà

D’altra parte, per me personalmente – ma credo di poter ben interpretare il pensiero di molti miei connazionali oggi presenti – decisivo è stato l’incontro con la grande letteratura russa, non solo per la sua poderosa e ineguagliabile forza narrativa, ma per il contributo che essa ha offerto alla mia formazione, come a quella di tantissime generazioni di europei.

Ogni citazione, in proposito, rischia di essere superflua o parziale. Però vorrei almeno ricordare le pagine straordinarie, racchiuse nel grande capolavoro di Dostoevskij, I fratelli Karamazov, sulla leggenda del “Grande Inquisitore”, forse una delle più alte riflessioni mai espresse nella letteratura di tutti i tempi sulla libertà umana, dono “terribile” che Dio ha voluto offrire agli uomini e che ci rende tutti – sempre – responsabili delle azioni che compiamo, come ci ricorda il grande filosofo ebreo Jonas, grande studioso dell’agnostico.

La responsabilità, frutto più maturo della nostra naturale condizione di libertà, richiede la massima attenzione e la più ferma determinazione affinché l’umanità non riviva mai più i fantasmi del passato. Quanto più ci si allontana dagli anni della seconda guerra mondiale, quanto più sparisce la generazione dei testimoni diretti della tragedia dell’Olocausto – oggi qui davanti a me c’è un sopravvissuto, un testimone –, tanto più deve accrescersi la nostra responsabilità, personale e collettiva, a tutti i livelli, per vivificare la memoria.

L’oblio, il più micidiale – ricordatevi – alleato dell’odio, rischia di far rivivere – seppure in forme diverse – gli orrori di quel passato. Occorre vigilare di fronte al riaffiorare di forme – latenti o esplicite – di antisemitismo. Lo smarrimento della ragione collettiva, che sperimentammo nel secolo scorso, non è fugato per sempre. Purtroppo ancora oggi, in diversi Paesi d’Europa, anche in Italia, nella stessa città che oggi ci ospita, Roma, assistiamo a episodi di riprovevole violenza, che costituiscono il sintomo di un progressivo arretramento dei presidi di civiltà, di un drammatico affievolimento della sensibilità collettiva di fronte all’emersione di antiche e nuove forme di razzismo, spesso proprio di matrice antisemita.

Le Costituzioni democratiche racchiudono principi fondamentali, diritti di libertà che tutelano al massimo grado la persona, centro e fine dell’ordinamento giuridico. Tuttavia, dobbiamo fare attenzione e vigilare, perché anche in quadro giuridico di garanzie così sofisticato occorre da parte di tutti la massima fermezza e la più tenace determinazione.

Mi avvio a concludere, nelle mie funzioni di Presidente del Consiglio, nell’esprimere la ferma condanna nei confronti di episodi riprovevoli che si sono purtroppo intensificati negli ultimi tempi, desidero – da questo luogo così evocativo – ribadire ancora una volta l’impegno dell’Italia, in Europa e nel mondo, per tutelare e promuovere la libertà religiosa e il dialogo e per combattere, senza esitazioni, ogni forma di discriminazione e di intolleranza.

Come anche ho ricordato nella mia visita di gennaio, l’antisemitismo, quello di ieri e ma anche quello di oggi, è un suicidio dell’uomo europeo perché l’uomo europeo quando disprezza e rifiuta l’ebreo, disprezza e rifiuta se stesso disprezza e rifiuta se stesso, e nega una parte fondamentale della sua identità. Grazie davvero, benvenuti a Roma e vi auguro davvero di poter godere della nostra città.”