INCONTRI A ROMA IN ACCADEMIA D’UNGHERIA, PALAZZO FALCONIERI: Gábor Hamza

nella sua breve novella L’ULTIMO ACCORDO

Gábor Hamza, nato a Budapest, Ungheria, il 22 febbraio 1949. Professore di Diritto comparato, Diritto romano e sistemi giuridici dei Paesi dell’Europa dell’Est,

Già Presidente della legge civile e Sezione di diritto comparato dell’Accademia di Diritto Europeo, consulente e membro della Commissione per gli affari dell’integrazione Europea del Parlamento Ungherese.

Autore di 22 libri, è stato Visiting Professor nelle maggiori Università

Internazionali, tra le quali l’Università degli Studi di Roma Tre nel 2015.

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“Volevo comprarmi un nuovo pianoforte. Mentre giravo per le strade della città, alla ricerca di insegne di negozi che vendono strumenti, a un tratto mi ritrovai davanti a un’entrata, dove una targa bianca attirò la mia attenzione:

Salone di pianoforte di Camillo Schlangenschwert

Volevo aprire il portone ma lo trovai chiuso. Com’è possibile – riflettei tra me e me – che a Budapest, in pieno giorno, sia chiuso il portone di una palazzina così. Guardavo meglio l’edificio e vedevo una costruzione decaduta, con l’intonaco sgretolato, di colore originariamente grigio. Era stata costruita in uno stile solido e leggermente arcaicizzante; le sue finestre lunghe, che terminavano in un semicerchio, erano coperte da tende. Dall’unico balcone della casa si vedeva che non fosse stato mai usato.

Suonai al portone. Dopo aver aspettato un po’, sentii passi strani e pesanti e il portone si spalancò con uno scricchiolio. Vidi un ometto basso e gobbo, vestito di una vestaglia di seta, color rosso sangue. Sulla sua testa scoperta sventagliava, nel vento piacevolmente fresco di maggio, una criniera nera e gigantesca, degno di Assalone. Mi misurava con uno sguardo acuto, da capo a piedi, poi disse con una voce calma e morbida:

«In cosa posso esserle utile, Signore?»

«Sto cercando il maestro di pianoforti Camillo Schlangenschwert» risposi.

«Sono io» disse costringendo la sua faccia da satiro ben marcata a un sorriso storpiato, «e per cosa?»

«Vorrei comprare un pianoforte.»

«Si accomodi pure» disse, introducendomi cortesemente nell’interno e chiudendo con cura il portone. L’entrata era avvolta in una gradevole semioscurità, perciò il padrone di casa osservò: «Vado avanti per farle strada.»

Traballava davanti a me, sicché potevo osservarlo bene, senza dare troppo nell’occhio. La sua spalla sinistra pendeva più giù di quella destra e con il piede sinistro zoppicava alquanto. Dalla vestaglia, che lo copriva fin quasi alle caviglie, spuntavano, abbagliando, scarpe fini e nere. Pur essendo gobbo, sembrava essere una persona alquanto robusta, il suo collo spesso faceva intuire muscoli duri.

Arrivammo alle scale. Ma quanto poteva essere sbagliata l’espressione scala per quella meravigliosa hall! Una scala di parquet intarsiata, con ringhiera scintillante a specchio, sulla soffitta bianca candida affreschi, in ogni nicchia nel muro una statuetta di gesso – le copie di famosi monumenti antichi.

Sul decimo gradino il padrone di casa si fermò e si rivolse a me:

«Si meraviglia, vero, che io abbia arredato la mia casetta con tale lusso? Tuttavia, non ho altre passioni; la casa e il suo arredamento sono, infatti, il frutto del mio lavoro di trent’anni.»

Con ciò continuò a traballare. – Il lavoro di trent’anni – mi stupivo. L’ometto non mostrava più di quarantacinque-cinquant’anni.

Al primo piano ci trovammo di fronte a un piccolo corridoio che percorremmo; arrivammo a un’imponente porta bianca, che il mio ospite aprì, poi mi fece andar avanti.

«Ecco, il salone dei pianoforti.»

Entrando, in un primo momento non vedevo niente, poiché, dopo la placida luce chiara della scala, dovevo adattarmi alla semioscurità che qui per lo più regnava. I raggi del sole erano esclusi dalla sala da tende pesanti di seta.

«Si sieda» disse in modo semplice e mi avvicinò una sedia foderata di velluto rosso. A poco a poco i miei occhi si abituarono all’oscurità e vidi, con grande stupore, che stessimo in una sala colossale, in cui si schieravano, uno accanto all’altro, in ordine esemplare, i corpi neri e lucidi di almeno venti pianoforti.

Di fronte a me ticchettava un’enorme pendola. Sul suo quadrante, però, invece di cifre, si vedevano le teste di varie note, la sua cassa era abbellita di intagli barocchi.

«Ho tanti begli strumenti, vero?» osservò lo gnomo, facendo correre il suo sguardo, tutto commosso, per la sala. «Allora, lei vuole comprare un pianoforte?» si rivolse a me, con un tono alterato. «Come lo preferisce: amaro, dolce, pianoforte sciapo da salotto, oppure un magistrale strumento, impetuoso, difficile da frenare?»

Potevo sembrare come uno che non capisce l’ungherese.

«Allora?» ripeté la domanda. «Quale pianoforte corrisponde più al suo gusto?»

«Non capisco del tutto quello che dice» balbettai finalmente.

«Forse non sa suonare il pianoforte?» chiese meravigliandosi.

Annuii, per dire che so suonare.

«Suoni qualcosa» mi invitò, o meglio, me lo comandò, «aprirò i pianoforti».

Si alzò e percorse, zoppicando, la sala per aprire gli strumenti, uno dietro l’altro. Questi sembravano uno sciame di insetti pronti a volare. Il ticchettio misurato del pendolo e i movimenti lenti, cerimoniali del tizio cominciavano a snervarmi. «Avrò a che fare con un pazzo?» pensai rabbrividendo.

«Prego, si scelga un pianoforte!»

Mi sedetti a caso a uno e premetti un tasto. Il suono volò attraverso la sala e fece risuonare le corde di un altro strumento.

«Quello è suo fratello» disse il costruttore di pianoforti per spiegazione. Fui preso da un brivido sulla schiena.

Cominciai a suonare la Fantasia in re minore di Mozart… Lo strumento: era grandioso. Diede un suono morbido, cantabile. Però, quando sentii su di me lo sguardo duro, focoso del mio padrone di casa, perdetti la mia sicurezza. Le mie dita diventarono rigide, sbagliai tasti e la mia esecuzione – certo che lo percepivo – non era convincente. Appena finito, disse:

«Lei non suona bene. A parte che su questo strumento non si può comunque suonare Mozart. Questo qui, invece, è un pianoforte Mozart» continuò, sedendosi a un altro strumento. «Ha un timbro puro, sonoro ma non dolciastro. Cioè, analcolico» aggiunse.

Detto questo, suonò lo stesso brano. La sua esecuzione mi lasciò del tutto stupefatto. Toni eccellenti, una profonda lirica mozartiana proveniente dal cuore, grandiosa diteggiatura. Lo guardai mentre eseguiva un passaggio veloce. La sua faccia era trasfigurata e il suo corpo sembrava sollevarsi. L’ultimo accordo si ripeté su un altro pianoforte.

«Quello è il fratello di questo» accennò a un pianoforte all’altra estremità della sala.

Superando la mia impressione, dissi:

«Ma lei è un vero virtuoso! Perché non dà dei concerti?»

«A me non interessano i concerti e gli uomini. Amo solo i pianoforti. Sa, anche il pianoforte ha un’anima» proseguì con un tono acceso dall’esaltazione. «Non si può suonare qualsiasi cosa su questo pianoforte. Ha un’anima mozartiana, riproduce bene solo Mozart. L’altro, sul quale ha suonato prima, ha un’anima romantica. Semplicemente – odia Mozart. Talvolta mi riesce di costruire due strumenti nella stessa maniera, ma solo se scopro le loro anime. Questo pianoforte ha un compagno. Ciò che suono su questo, risuona sul suo pendant. Ora suonerò sul pianoforte di prima un Improvviso di Schubert. Faccia pure attenzione a quell’altro, lì, all’angolo di sinistra. Riecheggerà tutto.»

Zoppicò all’altro strumento e cominciò a suonare con passione. E, infatti, dall’altro lato della sala risuonavano le stesse incantevoli armonie dell’Improvviso in La bemolle maggiore. Sentii la fronte bagnata.

«Che sia impazzito?» pensai. Corsi all’altro pianoforte. Il fracasso dei miei passi mise un po’ di disturbo alla musica angelica dei sedicesimi scintillanti. Mi accostai accanto al pianoforte. I suoi tasti rimasero immobili, ma le sue corde cantavano l’ultimo messaggio dell’Improvviso, proprio come qualcuno le suonasse. Stavo lì, raggelato, quando anche l’ultimo tono vi si dissolse.

«Vede che ho ragione» udii la voce fioca del padrone di casa, sono esseri meravigliosi questi pianoforti. Però, c’è un problema, che mi tormenta già da anni» continuò con accento febbrile, «ho un pianoforte che non fa in nessun modo risuonare alcun altro, ed esso stesso risuona solo se lo suono realmente. Ma anche in quel caso non veramente. Non sono riuscito a trovare la sua anima, eppure, è uno strumento grandioso. Proprio come una donna bellissima, misteriosa e inesplorabile. Si concede al suo amante, ma sente bene che non lo ami davvero. Né Beethoven, né Liszt, né Brahms gli sembrano i veri amori. Forse sta aspettando quel genio che ancora non è nemmeno nato.»

Mi prese per la mano, la sua palma era bollente, umida, e mi condusse a un pianoforte nero e tetro. Si sedette e premette un Sol. Il suo suono era profondo, spesso, come di un violoncello incantato.

«Ascolti, quanto sia seducente, eccitante, il suo suono» sussurrò il maestro con la bocca arida, «sta aspettando il suo amore.»

A un tratto, la sua faccia si distorse in una convulsione, la sua mano meccanicamente si mise in moto. Il pianoforte cantò una serie di accordi di una bellezza indescrivibile, mai sentita. Da un momento all’altro la sala si riempì di un mormorio quasi insopportabile. Tutti i pianoforti si misero a suonare: venti pianoforti produssero una melodia immensa, magnifica. Barcollai. Lo gnomo suonò, in atteggiamento contratto e con lo sguardo fisso, poi diventò bianco, cadde e si abbatté senza vita sul parquet.

Con terrore fatale attraversai la sala. I pianoforti riecheggiavano tutti ancora misteriosamente l’ultimo accordo. Corsi giù sulle scale e strappando il portone – ci riuscii con stupenda facilità – scappai fuori, sulla strada. L’aria tiepida e fresca e i raggi del sole ora mi apparivano deliziosi. Ma le mie gambe tremavano e quando guardai una vetrina, vidi, allo specchio, che la mia faccia fosse pallidissima. Ero a malapena in grado di tornarmene a casa.

A casa non ho raccontato a nessuno di quanto mi era successo, custodivo la mia esperienza gelosamente come un segreto. Ma il giorno successivo, al pianoforte, cercavo di ricordare quella meravigliosa musica che lo gnomo aveva eseguito. Invano. Lo strumento produceva solo suoni sordi, senza senso. Cautamente, cominciavo a chiedere in giro, se si sapesse qualcosa di un costruttore di pianoforti chiamato Camillo Schlangenschwert. Nessuno aveva mai sentito simile nome. Tre giorni dopo raccolsi tutto il mio coraggio e decisi di rivisitare quella palazzina davvero memorabile. Ma non sono mai più riuscito a trovare né la casa né poi la melodia; eppure si trova nascosta, da qualche parte in me, però, non so dove.”

a cura di Edoardo Cetin